17 Febbraio 2015

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Che cosa è il volontariato che opera nel mondo delle dipendenze?

di Giuseppe Mammana 

‘Salute & Prevenzione – la Rassegna italiana delle Dipendenze’ affronta dal 1982 la tematica delle dipendenze patologiche, e rappresenta una delle riviste storiche nel settore.
Dopo tre anni di fermo, Salute & Prevenzione riprende le pubblicazioni, in edizione online e con frequenza semestrale. Tutti i vecchi lettori, collaboratori, professionisti e servizi che seguono il sito Acudipa possono inviare articoli e contributi che saranno esaminati dalla Direzione e dai referee del Comitato di Direzione ed eventualmente pubblicati. La rivista è dotata di un Comitato scientifico composto da professionisti -italiani ed esteri- nel settore delle dipendenze patologiche.

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LA SITUAZIONE IERI ED OGGI

Nel campo delle dipendenze , forse come in pochissimi altri il numero e la voce dei volontari operanti si sono sempre caratterizzati per la forte presenza e significatività. Ne è scaturita una particolare vivacità e vitalità nelle iniziative sociali in favore delle persone affette da questi problemi , ma anche spesso una difficoltà di comprensione, relazione e interazione tra il mondo dei professionisti e quello dei volontari. In taluni casi queste difficoltà sono sfociate in vere e proprie “guerre di religione “, in altri casi hanno prodotto una ostilità non combattuta, una pace armata. Queste difficoltà soprattutto in passato e per fortuna molto meno ora  hanno condotto i partecipanti al conflitto anziché ad analizzare i diversi punti di vista costituendo poi momenti di sintesi più alta. Questi momenti dovrebbero invece essere caratterizzati dalla conoscenza e dal riconoscimento delle diverse identità del professionismo e del volontariato e dalle interazioni possibili ed utili tra i due mondi.I quali comunque esistono.

Questo incontro ,infatti ,può produrre grandi cambiamenti positivi in ambedue i contesti purchè non sia vissuto entro i termini della sola necessità e della coazione burocratica, ma entro quelli della libertà e della centralità della persona di cui ci si occupa.

PERCHÉ, IN SENSO GENERALE, SI DIVIENE VOLONTARI?

La organizzazione sociale ed istituzionale nella quale tutti noi viviamo ha ormai raggiunto tassi elevatissimi di burocratizzazione, formalizzazione, impegno solamente formale delle persone. In questi ambiti le persone si conoscono poco, interagiscono male e  realizzano una socializzazione anch’essa burocratica e formale. In certi luoghi e modi essa diviene addirittura anaffettiva. I rapporti sono legati alla funzione sociale di ciascuno: medico, dirigente, insegnante, ecc e la persona sparisce . Lo spazio della famiglia, dove tutto dovrebbe funzionare al contrario nel senso dell’informalità e spontaneità è ridotto e spesso mal funzionante o funzionante secondo gli stessi criteri della società più generale .

Il sociale, per come noi lo conosciamo nella politica, negli ambiti sindacali ed istituzionali  è anch’esso oramai molto formalizzato e burocratico. Il volontariato in questo generale contesto corrisponde allora ad un sano tentativo di ricreare delle “zone franche”di relazione umana fondata sulla semplicità della relazione stessa e sulla sua globalità. Nel volontariato non  ci si parla in quanto medico e genitore o insegnante ed allievo, ma soprattutto in quanto uomini e donne interessati ad un medesimo problema e solo successivamente mettendo in campo le proprie specifiche competenze. Si resta comunque sempre disponibili ad adottare solo quel livello di competenze che è comprensibile e compatibile con la relazione tra le persone che resta l’obiettivo primario del volontariato stesso . Si tratta di una piccola  rivoluzione copernicana in un mondo che ideologizza la tecnica deificandola quale mezzo risolutore di ogni problema e/o conflitto.

 

IL VOLONTARIATO E L’ISTITUZIONE

Il volontariato conduce anche a una più o meno consapevole lotta al tecnicismo come tecnica ideologizzata (che non è la professionalità). Talora questa battaglia è condotta con modi rozzi, talora con strumenti intelligenti ed aperti. Non possiamo non riflettere però, sul significato positivo di questa presenza in quanto elemento di critica ad un professionismo visto come sola capacità tecnica astratta dai bisogni primari dell’uomo, praticamente alienante per chi la fa e per chi la subisce, pratica annunciatrice di un cinismo diffuso anche nel campo sociale. Nel lontano 1991  il  volontariato fu normato con la legge 266 e con le successive legislazioni regionali .A molti anni di distanza da quel momento oggi  dobbiamo interrogarci sulla utilità e sui limiti di una normativa che con i soliti meccanismi di “controllo” e “protezione” da parte dello Stato e delle Regioni rischia fortemente di  burocratizzare ciò che nella motivazione dei singoli volontari è nato spesso dal bisogno di rompere la gabbia del formalismo e del burocratismo alienante della nostra società. D’altra parte è noto che una grossa fetta di volontariato vero e proprio, che non ha grande disponibilità di mezzi finanziari ma opera praticamente, spesso in ambiti ristretti e decentrati e spesso in aree problematiche molto settoriali non riconosce né pratica di fatto la normativa del volontariato e  non è riconosciuto da essa.

Perché si realizza questa scissione tra le motivazioni originarie del volontariato e la loro  realizzazione storica ?

Quando una persona che lavora quotidianamente in una fabbrica, in un ospedale, in uno studio professionale trova gratificazione, unità del sé, riconoscimento e libertà personale in una attività di volontariato rompe di fatto il nostro schema di organizzazione sociale e senza proclami pratica una alternativa fondata sul ridimensionamento della quotidiana alienazione della nostra esistenza. Questa persona realizza una nuova distribuzione dei propri investimenti emotivi e spesso anche cognitivi che non gli è consentita negli ambiti della vita quotidiana. Questa alternativa ,che è anche una  scissione tra l’obbligo sociale  ed il piacere dell’identità,  tuttavia  gli è consentita finchè con la sua azione individuale e/o collettiva non conta molto e non” disturba” l’organizzazione “professionale” o “istituzionale” (spesso alienata) della società.

Tutto questo vale con tassi di liberalità diversi da Paese a Paese. Nel nostro Paese assistiamo sempre più spesso ad una reazione burocratizzante dello Stato e delle Istituzioni che mostrano un bassissimo  tasso di liberalità in materia.

Il nostro Paese si distingue sempre più per un forte controllo sociale e per una forte induzione di dipendenza nei confronti di ogni organizzazione sociale che promuova l’autonomia reale delle persone.Questo si realizza sia con meccanismi di tipo  burocratico sia con l’assegnazione delle risorse pubbliche a “consociazioni “ di pseudo volontariato, formalmente responsabili della erogazione dei servizi e sostanzialmente organismi di controllo dell’erogazione degli stessi ai “soliti noti”.Laddove spesso controllo e gestione spesso coincidono generando vari conflitti di interesse .

Il nostro sistema sociale e quello sanitario con queste modalità sono  diventati costosissimi, hanno portato ad un eccesso di burocratizzazione, tendono a deresponsabilizzare i singoli cittadini.

Alla base di tutto questo vi è una assenza di libertà di scelta da parte delle persone. L’ organizzazione statale e quella regionale sembrano  desiderare  un volontariato che non rispetti più la sua motivazione originaria e che sia disponibile ad assumere ruoli impropri e sostitutivi, abbassando con le proprie prestazioni i costi dello stato sociale .A questo volontariato le istituzioni offrono  qualche euro  e qualche potere “consociato” ma chiedono  in cambio “l’inquadramento” e la fine della sua libertà e creatività. In altre parole la morte della sua anima originaria .Questo scambio è utile alla società?Aiuta il suo progresso? A noi pare di no.

A noi pare che questo scambio produca lavoro “appaltato” nero e sottopagato, riproduzione aggravata dalla alienazione sociale che il volontariato combatte nel suo spirito originario, riduzione della libertà di pensiero e di iniziativa dei singoli e delle associazioni Al contrario pensiamo che un volontariato “liberato” dai vincoli e dai legacci della burocrazia statale possa meglio svolgere quel ruolo di rappresentazione della soggettività dei cittadini, di anticipazione di nuovi bisogni, di integrazione di servizi esistenti, di stimolo di base alle istituzioni. Per questo occorre rivedere  le normativa sul  volontariato trovando i modi giuridici perché esso possa riprendere il suo spirito originario Questo volontariato può trovare nelle organizzazioni no profit (che sono e devono essere una cosa diversa dalle associazioni di volontariato in sé) ed in una migliorata legislazione (che consenta un vero libero mercato per la liberalità) il modo di realizzare  opere innovative e dai costi sociali ridotti.. Meglio insomma che Stato e Regioni  se ne stiano a casa evitando  di occupare parassitariamente anche questo campo saturandone ruolo e funzioni.

 

IL VOLONTARIATO NELLE DIPENDENZE

La storia del volontariato in questo campo è particolare e moderna. Il volontariato delle dipendenze  è quello delle mamme, delle associazioni dei familiari, degli ex dipendenti, dei religiosi, dei professionisti che svolgono talora un ruolo di supporto alle decisioni si cambiamento prese dai loro assistiti o familiari. È un volontariato vero, la cui motivazione spesso è apparsa confusa ed ambivalente ma reale. In questa motivazione vediamo talora una rivendicazione misconosciuta e disperata della cura di sé o dell’altro, spesso oltre la possibilità reale della cura stessa, ma anche una ostinata volontà creatrice che ha spesso abbattuto modelli e resistenze che i professionisti mai avrebbero  toccato. Salvando vite umane! In questa motivazione abbiamo visto talora l’isolazionismo e l’onnipotenza fatta realtà e l’illusione produttrice di illusione, ma anche la realizzazione di opere straordinarie. Nella motivazione che anima molte leadership volontarie abbiamo visto una grande cura narcisistica della propria immagine ed una nemmeno tanto recondita sublimazione del proprio (ed umano) desiderio di potere, ma anche un potere usato per costruire opere che restano oltre la propria immaginazione ed esistenza a disposizione della società civile. Spesso gratuitamente! Nella motivazione di molti professionisti detrattori del volontariato in questo campo abbiamo visto spesso una preoccupazione per l’invadenza e la nocività di certi comportamenti volontaristici , ma anche una invidia distruttiva verso chi raccoglie frutti gioiosi dalle proprie opere educative o terapeutiche. Perché invece  non imparare invece a fare lo stesso?

Cosa vuol dire tutto questo? La prevenzione, la cura, la riabilitazione, l’inserimento dei dipendenti non sono questioni soltanto professionali, hanno a che fare con la più naturale condizione umana, la dipendenza resa paradossale ed assoluta nel male patologico. Per questo i nostri campi d’ azione evocano e mobilitano istanze e sentimenti profondi in chi ha fatto questa scelta di volontariato come momento di liberazione dalle alienazioni e dalle dipendenze personali che spesso condizionano la vita umana. La prima domanda che ciascun volontario si pone è questa: è possibile che si desideri la schiavitù, la dipendenza assoluta, sia pure da un piacere straordinario come quello prodotto dalle droghe o da altri oggetti pervertiti ? La sfida che ciascun volontario accetta è questa:dimostrare all’altro (e forse anche a se stesso) che la sua libertà, la sua autonomia sono possibili,  pure con tutti i limiti delle cose umane. “Liberando il dipendente  si  libera anche sé   stessi”. La lotta che ciascun volontario di questo campo  ingaggia è questa: tutto sembra convergere  per mantenere nella  dipendenza e nella mania chi ci sta: coloro che spacciano, coloro che traggono comunque profitto legale o illegale dalle dipendenze  ,coloro che non credono nella cura, coloro che dentro e fuori creano legami con le organizzazioni criminali, coloro che vogliono liberare le persone  dipendenti rendendo liberamente disponibili gli strumenti della loro stessa sottomissione , coloro che non forniscono strumenti di realizzazione a chi, liberatosi dalle dipendenze , cerca una sua identità adulta e matura .

Il volontario si batte contro tutto questo. Il volontario che opera concretamente nel campo delle dipendenze  lavora sul terreno delicatissimo e di confine tra sottomissione  ed autonomia cioè su ciò che caratterizza un luogo ed un tempo come autoritari o democratici. Il volontariato perciò urta molti poteri, da quello professionale a quello politico, istituzionale, poliziesco e giudiziario. La sua naturale tendenza all’autonomia ed all’anomia che ha prodotto opere non insignificanti, in uno stato moderno deve essere certamente regolata ma non soffocata ; negli ultimi anni essa invece è stata spesso attaccata da quello che ci sembra un processo di autoritaria normalizzazione che è in corso nella società. La giusta esigenza di evitare abusi e sregolatezze talora compiute dai volontari è gestita dagli apparati istituzionali con arroganza e talora violenza devastatrice utilizzate oltre ogni senso e misura. Lo Stato e le istituzioni  hanno  spesso richiesto e richiedono  al volontariato ed alle sue opere ciò che non richiedono a sè stessi ed alle proprie  strutture. Sotto questi colpi spesso il volontariato si  ritira o comunque ha ridimensionato e ridimensiona  i propri interventi impoverendo complessivamente la  libertà .la ricchezza e la creatività della società. Eppure per l’apparato pubblico  un volontariato vero, libero e creativo, anche se criticamente collaborante è di grande utilità.

Mi pongo infine alcune domande.

È possibile un’opera capillare di prevenzione delle dipendenze senza la presenza   capillare di un volontariato che abbia un ruolo culturale ed operativo nei luoghi frequentati dai bambini e dai  giovani?

È possibile un sistema di cure, non cronicizzanti che non riceva il pungolo e lo stimolo continuo, anche se critico di coloro che rappresentano volontariamente la soggettività, le istanze di liberazione delle droghe e di guarigione  dalle dipendenze ?

È possibile un sistema riabilitativo dai costi compatibili col nostro stato economico e sociale senza un apporto significativo del volontariato?

È possibile un’opera reale di inclusione  e reinserimento sociale e lavorativo dei tossicomani che guariscono senza che settori di volontariato si dedichino alla costruzione di imprese no profit?

Chi formerebbe ed assumerebbe personale svantaggiato, almeno inizialmente, chi lo accompagnerebbe in un’opera di reinserimento sociale e lavorativo ed inclusione ,ma anche di sostegno affettivo se non ci fossero organizzazioni e singoli che recano con sé le motivazioni del volontario, della vicinanza e del lavoro no profit?

Perché non pensare che la sclerosi cui spesso vanno incontro i professionisti e lo stesso bun-out che talora li affligge possono essere ridotti come rischi professionali nel rapporto stretto col volontariato?

E perché non pensare, infine, che l’onnipotenza e l’anomalia eccessiva del volontariato possano trovare comprensione e freno più che dalla azione burocratica forse proprio nel rapporto stretto ma rispettoso della diversa identità tra volontariato e le stesse istituzioni?

Perché tutto questo non stia nel libro dei sogni, se lo crediamo utile, dobbiamo operare per un pensiero aperto, e per una seria riconsiderazione delle norme legislative e dei criteri professionali  che organizzano i nostri setting operativi e progettuali prevedendo in ogni fase del nostro lavoro  lo scambio con i volontari e la sua valorizzazione . Dobbiamo richiedere il rispetto del  ruolo dei professionisti del settore , ma anche praticare il riconoscimento e la valorizzazione della libertà e della creatività dei volontari, l’alleanza comune  contro la burocrazia e l’alienazione che producono dipendenza. Anche così possiamo lavorare per i nostri clienti e/o pazienti . Ed anche  per noi stessi!

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